Anteprima degli articoli del bollettino nr 3 del 2021
HOPErazione Natale, una pagina della storia di Mercogliano al tempo della pandemia
«Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi», con queste parole, pronunciate durante l’omelia della Solennità di Pentecoste il 31 maggio 2020, il Papa squarciava il buio di tre mesi di sofferenze causate dal covid-19. L’Abate di Montevergine in quella stessa occasione lanciava un messaggio altrettanto forte: invitava nella Messa di Pentecoste autorità, medici, infermieri, associazioni di volontariato e i guariti dal virus del territorio locale, per condividere un momento di ringraziamento e ritrovare insieme la forza per rialzarsi, ognuno nel suo campo.
Non sprecare l’occasione di imparare dalle difficoltà, attraversale e trasformarle in azioni positive. Questo messaggio risuonava costantemente e cresceva il desiderio, soprattutto tra le associazioni locali che anche in piena pandemia non avevano mai smesso di porsi al servizio della comunità con la distribuzione di mascherine, piatti caldi, con l’allestimento del banco alimentare.
Era fine novembre duemilaventi, il Natale era alle porte, ma non si percepiva lo spirito tradizionale delle festività natalizie. Tutto era diverso e “sospeso”.
Si accendeva improvvisamente un faro sull’Irpinia, l’Abate Guariglia annunciava che il Presepe di Montevergine sarebbe stato installato a Mercogliano. Il Presepe della Misericordia, che fu donato a Papa Francesco nel 2017, con il suo immenso significato avrebbe rappresentato il rifugio dalle sofferenze di un anno difficile e il punto di partenza per disegnare un nuovo inizio.
Da qui ha preso forma il progetto di HOPErazione Natale. Una missione di speranza che avrebbe avuto alla guida i bambini, i veri protagonisti del Natale, capaci di donare, con ingenua semplicità, sorrisi e spunti di riflessione. E così li abbiamo investiti di un ruolo importante: coinvolgere tutta la famiglia nella realizzazione, possibilmente con materiali riciclati, di un lavoro ispirato alle opere di Misericordia raccontate nel Presepe di Montevergine e, contemporaneamente, contestualizzato in un luogo del cuore di Mercogliano. Condividere con la famiglia e riallacciare il filo con il proprio territorio: HOPErazione Natale stava tracciando l’anima di un Natale fondato sull’essenzialità.
Abbiamo iniziato incontrando i bambini in video lezione, per scoprire insieme che le opere di Misericordia abitano nelle azioni di tutti giorni e, attraverso schede gioco e video, li abbiamo guidati tra le bellezze custodite nella città di Mercogliano, convinti che il senso di appartenenza si rafforzi alimentando l’amore per il territorio. La spontaneità dei bambini ci ha inondato e motivato di giorno in giorno. Vedere, poi, i disegni, i presepi e gli elaborati scritti realizzati per il concorso è stato emozionante poiché tutti i lavori erano dei piccoli tesori di intensi significati e sorprendenti messaggi che solo i bambini sanno dare.
HOPErazione Natale è stato il nostro modo di guardare oltre il covid e di non sprecare l’occasione. Abbiamo scelto di fare rete, la Pro Loco e la Misericordia del Partenio, insieme all’Abbazia Territoriale di Montevergine e al Comune di Mercogliano, e di agganciare alle sue maglie anche le scuole cittadine per “esserci”, insieme, nonostante tutte le difficoltà del momento, al servizio del territorio e della comunità.
Il frutto che HOPErazione Natale ha generato è stato sorprendente. Entusiasmo, partecipazione, condivisione, l’emozione di sentirsi, proprio quando le difficoltà imperversavano, più uniti e vicini alla comunità. Ecco perché l’Abate di Montevergine ha fortemente voluto che il senso di comunità, lo spirito di aggregazione nonostante le distanze, l’amore autentico dimostrato dai bambini nelle loro opere non passassero inosservati, ma restassero impressi nelle pagine della storia della città di Mercogliano ai tempi della pandemia.
E così, HOPErazione Natale è diventato un libro. Il 19 giugno 2021, a conclusione dell’anno scolastico, lo abbiamo presentato ufficialmente nel meraviglioso chiostro del Palazzo Abbaziale di Montevergine. E’ stato il frutto di un prezioso lavoro di squadra di cui, certamente, anche col passare del tempo, riusciremo ancora ad assaporare le emozioni e a raccogliere i frutti.
Stefania Porraro – Presidente Pro Loco Mercogliano
SOLO DONANDO AGLI ALTRI REALIZZI TE STESSA – Tra fede e Istituzioni a cura di Annarita De Feo
A colloquio con Imma Scognamiglio, vice sovrintendente della Polizia di Stato
D come donna, come dedizione, come devozione, come dono, D come divisa. Imma Scognamiglio vice sovrintendente della Polizia di Stato in forza all’Ufficio Relazioni Esterne, Cerimoniale e Studi Storici del Dipartimento della Polizia di Stato in servizio all’Ufficio Stampa racconta la sua esperienza di fede che accompagna le sue giornate interminabili tra famiglia e lavoro .Una vera equilibrista che si muove con garbo e sicurezza tra lavoro, famiglia e società: una donna forte, dinamica che dispensa attenzione e impegno in tutto ciò richiede energie, efficienza e senso del dovere. Sposata felicemente con Augusto, madre di Liliana e Andrea ricorda con affetto le giornate trascorse sul Santuario di Montevergine da bambina e la consapevolezza di fede maturata nel tempo che le ha permesso di credere in sé portando avanti valori e tradizioni. Una donna multitasking: orgogliosa della divisa della Polizia di Stato che indossa con fierezza, convinta delle sue scelte di vita. Il volto di Mamma Schiavona non lascia indifferente chi lo incrocia, tanto da portarlo sempre con sé nella sua essenza. Imma, poliziotta dal cuore d’oro che con piglio deciso tra la gente e per la gente dedica il suo tempo non solo ha con sé l’amore per i suoi cari, ma trasferisce agli altri il suo equilibrio, dettato anche dalla fede. insomma Imma è l’esempio vivo di cio’ che rappresenta una donna con la D maiuscola: una donna è il cerchio completo. Dentro di Lei c’è il potere di creare, nutrire e trasformare ed in fondo Mamma Schiavona lo sa.
Donna in polizia, moglie e madre quanto è importante la fede nella sua vita e come la aiuta ad affrontare un così delicato compito che la porta ad “esserci Sempre “tra la gente e vicino alla gente
Hellen Keller diceva “Volgi lo sguardo al sole e non vedrai mai ombre”. Ecco la fede per me rappresenta il sole e mi accompagna in tutti i momenti della giornata. Mio padre mi ha insegnato a ringraziare il signore tutte le mattine per avermi fatto vedere per un giorno in più la luce del sole. Se sei grata alla vita, la vita di ricompensa: a me ha dato una bella famiglia, splendidi figli e un lavoro che mi ha permesso in 30 anni di poter fare qualcosa per gli altri. Solo donando agli altri realizzi te stessa. “Esserci sempre”, adesso più che mai identificativo di una mission che vede le donne e gli uomini della Polizia di Stato impegnati a svolgere un importante ruolo a protezione dell’ordine e della sicurezza dei cittadini, rimanendo sempre sensibili interpreti delle paure e delle molteplici difficoltà che oggi permeano la collettività ferita dalla piaga della pandemia.
Arte ed emozione: un’equazione perfetta. Lei è anche una mamma: quale emozione le suscita guardare il volto della Madonna di Montevergine, madre della Chiesa e di tutti noi?
Il Santuario della Madonna di Montevergine è il luogo della mia infanzia e delle belle giornate. La domenica con la mia famiglia spesso ci andavamo e io piccola entrando nel santuario ammiravo la maestosità dell’altare e guardando il quadro della madonna sentivo il cuore gonfio di gioia.
In momenti di crisi come quello che stiamo vivendo, le donne hanno sempre un approccio differente: piu’ diretto, piu’ creativo. In una situazione di emergenza come quella pandemica è ciò che serve. Da dove trae tanta forza, tanta grinta che diventa sprone anche per le altre donne?
La convivenza forzata e continuativa determinata dalla pandemia ha messo a dura prova tante famiglie e, solo in quelle case dove ha prevalso il buon senso e la determinazione di noi donne, la famiglia ha sopravvissuto fortificandosi ancora di più. Io sono cresciuta in una famiglia dove, nonostante le tante difficolta economiche e di salute, la famiglia era un nucleo saldo e inossidabile e quell’esempio ha fatto di me la donna che sono oggi ed è quello, che con l’esempio, cerco di insegnare a mia figlia.
Papa Francesco dice che la solidarietà è la virtù della fede, ai tempi del covid-19 bisogna muoversi con prudenza senza dimenticare l’altro che ha bisogno.
Papa Francesco non solo lo ha predicato ma lo ha applicato con iniziative e manifestazioni per i poveri e i bisognosi. La pandemia ci ha ricordato che tutti possiamo aver bisogno dell’altro e ha azzerato le diversità di classe perché ha messo a nudo le medesime paure umane
Il 2020 è stato un anno particolare, caratterizzato dall’emergenza sanitaria. La Polizia di Stato apprezzata storicamente. In tutto il mondo ha dovuto rimodulare i propri servizi, al fine di contrastare il diffondersi dell’epidemia e garantendo le ordinarie attività di controllo del territorio: su quali attività e obiettivi si concentra, nel 2021, l’attività della Vostra Amministrazione e della comunicazione in particolare? Ricordiamo che nell’ ultimo rapporto Eurispes la Polizia di Stato si attesta per il 69.2% come forza più amata dagli italiani.
Il Covid ha cambiato le grandi emergenze del paese e la Polizia di Stato si è trovata a dover gestire le difficolta economiche e sanitarie delle persone e la solitudine soprattutto degli anziani. I poliziotti si sono trovati a portare la spesa alle persone che non si potevano muovere da casa perché ammalati, a far compagnia ad anziani che chiamavano al numero unico perché stavano morendo di solitudine. Ma la vera emergenze che gli uomini e le donne della Polizia di Stato si sono trovati a combattere è stata la violenza di genere consumata nell’anno della pandemia tra le mura domestiche; a volte con non poche difficoltà i poliziotti della sala operativa hanno dovuto interpretare le richieste di aiuto delle donne, come il poliziotto di Torino, che capito dal tono della voce della donna che ha chiamato in sala operativa, ha finto di prendere un’ordinazione per delle pizze e inviato sul posto una volante, ha arrestato il marito.
Condividere i bisogni per condividere il senso della vita. Quell’Esserci Sempre della Polizia di Stato è una promessa valida, sempre e per sempre?
Esserci sempre non è solo il claim dell’istituzione Polizia di Stato, è il comune sentire di tutti gli uomini e le donne della Polizia di Stato che hanno giurato di essere al servizio del cittadino. Esserci è il regalo più bello che si può fare a una persona, oggi più che mai abbiamo bisogno di “presenze”.
Saluti dell’abate Riccardo Luca Guariglia all’arcivescovo S.E. J. Rodriguez Carballo
Eccellenza Reverendissima,
grazie per aver accolto l’invito mio e della comunità monastica di Montevergine a voler celebrare la Solennità della Pentecoste in questo santuario mariano così caro a tanti pellegrini che da sempre accorrono qui a pregare la Vergine Bruna del Partenio.
Questa abbazia, oltre a celebrare tale solennità ricorda anche il giorno della consacrazione della prima chiesa qui a Montevergine da parte di San Guglielmo abate, nel 1126.
Già nel 1123, San Guglielmo, dopo essersi fatto pellegrino prima a Santiago di Compostella, poi a Roma e diretto in Terra Santa, passando per questo territorio scelse questo luogo per poter cercare Dio e condurre una vita eremitica. Ma poi, attorno a lui crebbe subito una comunità di fratelli che scelsero la Regola di San Benedetto come norma di vita. E da allora questo monastero per ben nove secoli è un punto di riferimento non solo per la devozione mariana, ma anche per vita monastica che ivi si svolge a vantaggio della Chiesa. Sempre questa comunità monastica lungo i secoli è stata punto di riferimento non solo in campo religioso, ma anche in quello culturale e sociale. Pio XII, proclamò il nostro fondatore Patrono d’Irpinia proprio perché la sua Congregazione ha contribuito al bene di queste terre e del meridione in particolare.
Ieri sera durante la veglia di Pentecoste, celebrata insieme alle comunità neocatecumenali di Avellino, così vicino alla nostra comunità, ella ci ha ricordato che la vita religiosa, come ci dice papa Francesco, deve essere il vangelo della gioia. Senza gioia non c’è vita cristiana e tanto meno vita religiosa. Senza gioia non c’è speranza che deve essere l’anima della nostra vita di consacrati, nonostante le difficoltà dei nostri tempi. Oggi la Chiesa ci chiede tanto e tanto si aspetta da noi.
Anche noi, come comunità e come Chiesa, ci siamo chiesti come possiamo mettere in pratica quello che papa Francesco ci chiede: essere Chiesa in uscita.
Noi lo facciamo, eccellenza reverendissima, mettendo in pratica quella che è la spiritualità monastica benedettina: accogliendo i numerosi pellegrini che salgono su questo santuario. Noi andiamo verso di loro donando loro la Parola, donando loro la misericordia di Dio, donando loro il Pane del cielo. E nel tempo ci sforziamo di dare loro anche altri tipi di aiuti. Quello che facciamo è sempre poco, ma vi assicuro che lo facciamo con il cuore di Dio.
Grazie di cuore eccellenza per aver accettato il nostro invito e aver condiviso con noi questa solennità di Pentecoste. Lo Spirito Santo guidi il vostro servizio pastorale per il bene della chiesa. E in comunione con papa Francesco.
Ci accompagni la vostra preghiera mentre noi vi assicuriamo la nostra al Signorem mettendola nelle mani della Vergine Maria, qui venerata con il titolo di Montevergine.
Grazie.
Omelia per la solennità di Pentecoste : La Pentecoste: festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana –
di S. Ecc. Josè Rodriguez Carballo
Segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica
Carissimo padre abate, comunità monastica di questa abbazia, fratelli e sorelle: Pace a voi!
Sono lieto di celebrare con voi questa Santa messa in questo polmone spirituale di queste terre nella solennità di Pentecoste. Questo mistero ben possiamo dire che costituisce il battesimo della Chiesa, È un evento che le ha dato, per così dire, la forma iniziale la spinta per la sua missione. E questa forma e questa spinta sono sempre valide, sempre attuali, e si rinnovano in modo particolare mediante le azioni liturgiche. In questo momento vorrei soffermarmi su un aspetto essenziale del mistero della Pentecoste, che ai nostri giorni conserva tutta la sua importanza.
La Pentecoste la festa dell’unione, della comprensione e della comunione umana. Lo abbiamo ascoltato nella prima lettura. Lo spirito unisce nella stessa lingua Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia ed della panfilia, ebrei e proseliti. Lo spirito unisce e armonizza le diversità in modo da farci diventare tutti fratelli, membri di una comunità umana e di fede segnata dalla fratellanza e dall’amicizia sociale, come ci invita il Papa Francesco nella fratelli tutti. Lo spirito crea armonia, creata fraternità. Il nostro principio di unità è lo Spirito Santo. Lui ci ricorda che anzitutto siamo figli amati da Dio; tutti uguali, in questo, e tutti diversi. Lo spirito viene a noi con tutte le nostre diversità e miserie, per dirci che abbiamo un solo Signore Gesù, un solo Padre E che per questo siamo tutti fratelli e sorelle. Il contrario: le divisioni, i conflitti, sono opera del Maligno.
Tutti possiamo constatare come nel nostro mondo, anche se siamo sempre più vicini l’uno all’altro con lo sviluppo dei mezzi di comunicazioni, le distanze geografiche sembrano sparire, la comprensione la comunione tra le persone sia spesso superficiale edifficoltosa. Permangono squilibri che non di rado portano a conflitti; il dialogo tra le generazioni si fa faticoso e a volte prevale la contrapposizione; assistiamo fatti quotidiani in cui ci sembra che gli uomini stiano diventando più aggressivi e più scontrosi; comprendersi sembra troppo impegnativo e si preferisce rimanere nel proprio io, nei propri interessi. In questa situazione, possiamo trovare veramente vivere quell’unità di cui abbiamo bisogno? Il racconto biblico della Pentecoste contiene una sua perenne verità; lo possiamo vedere lungo la storia, ma anche nel nostro mondo. Il papa Francesco, in fratelli tutti ci descrive molto bene le nubi che fanno del nostro mondo un mondo chiuso che ci porta rivivere la stessa esperienza di babele. È vero, abbiamo moltiplicato le possibilità di comunicare di avere informazioni, di trasmettere notizie, ma possiamo dire che è cresciuta la capacità di capirci io forse, paradossalmente, ci tre uomini non sembra forse serpeggiare un senso di diffidenza, di sospetto, di timore reciproco, fino a diventare perfino pericolosi l’uno per l’altro? Lo sperimentiamo soprattutto durante la pandemia.
La contrapposizione tra Babele e Pentecoste riecheggia anche nella seconda lettura, dove l’apostolo dice: “camminate secondo lo spirito non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne” (Gal 5, 16). San Paolo ci spiega che la nostra vita personale è segnata da un conflitto interiore, da una divisione, tra gli impulsi che provengono dalla carne quindi che provengono dallo spirito; e noi non possiamo seguirli tutti. Non possiamo, infatti, essere contemporaneamente egoisti e generosi, seguire la tendenza a dominare sugli altri eprovare la gioia del servizio disinteressato. Dobbiamo sempre scegliere quale impulso seguire e lo possiamo fare in modo autentico solo con l’aiuto dello spirito di Cristo. E una direzione che porta a perdere la propria vita. Invece lo spirito Santo ci guida verso le altezze di Dio, perché possiamo vivere già in questa terra il germe di vita divina che è in noi. Afferma, infatti, San Paolo: “il frutto dello spirito è amore, gioia, pace” (Gal 5,22).
E notiamo che l’apostolo usa il plurale per descrivere le opere della carne, che provocano la dispersione dell’essere umano, mentre usa il singolare per definire relazione dello spirito, parla di frutto, proprio come alla dispersione di va bene si contrappone l’unità di Pentecoste.
Ma guardiamo al Vangelo di oggi, nel quale Gesù a per: “quando verrà lui, lo spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13). Qui Gesù, parlando dello spirito Santo, ci spiega che cos’è la chiesa e come essa debba vivere per essere il luogo dell’unità e della comunione della verità; ci dice che agire da cristiani significa non essere chiusi nel proprio io, ma orientarsi verso il futuro; allora, quando io parlo, penso, agisco come cristiano, non lo faccio chiudendomi nel mio io, ma lo faccio sempre del tutto e a partire dal tutto: così lo spirito Santo, spirito di unità e di verità, può continuare a risuonare nei nostri cuori in elementi di uomini e spingerli ad incontrarsi e ad accorgersi a vicenda. Lo spirito, proprio per il fatto che agisce così ci introduce in tutta la verità, che Gesù, ci guida nell’approfondirla, nel comprenderla: con un atteggiamento di profonda umiltà interiore. E così diventa più chiaro perché Babele è Babele e la Pentecoste è la Pentecoste. Dove gli uomini vogliono farsi Dio, possono solo mettersi l’uno contro l’altro. Dove invece si pongono nella verità del Signore, si aprono dall’azione del suo spirito che li sostiene e riunisce.
Torniamo ancora racconto della Pentecoste e scopriamo la prima opera della Chiesa: l’annuncio. Lo spirito non vuole che ricordo del Maestro sia coltivato in gruppi chiusi, in cenacoli dove si prende gusto a fare il nido. Lo spirito apre, rilancia. Spinge al di là dei già detto e del già fatto. E gli apostoli vanno mettendosi in gioco, escono. Un solo desiderio li anima: donare quello che hanno ricevuto. È bello quel inizio della prima lettera di Giovanni: “quello che noi abbiamo ricevuto e abbiamo visto, diamo a voi”. Tutti siamo nati da un dono e cresciamo nel donarci; non conservandoci, ma donandoci.
In questo contesto, il Papa Francesco ci ricorda che tre sono i nemici del dono e narcisismo, il vittimismo e il pessimismo. Il narcisismo fa idolatrare se stessi, fa compiacere solo dei propri tornaconti. Il narcisista pensa: “La vita è bella solo se io ci guadagno”. Il narcisismo ci ripiega sui propri bisogni, indifferenti a quelli altrui, il non ammettere le proprie fragilità e i propri sbagli. Il secondo pericolo e il vittimismo. Il vittimista si lamenta sempre degli altri: “non mi capiscono. Nessuno mi aiuta, nessuno mi vuole bene, ce l’hanno tutti con me”. Infine, il pessimismo. Qui la litania quotidiana e: “non va bene nulla, la società, la politica, la chiesa”. Il pessimista se la prende col mondo, ma resta inerte pensa: intanto, a che serve donare, Donarsi? È inutile. Abbiamo bisogno della speranza, abbiamo bisogno di sognare insieme, di costruire insieme. Lo spirito, di cui ha tanto bisogno il mondo e la chiesa, farà possibile questo miracolo.
Cari amici, dobbiamo vivere secondo lo spirito di unità e di verità, dobbiamo formare comunità abitata dallo spirito, dobbiamo costruire chiesa, una chiesa in uscita, una chiesa in missione., Riempi cuori dei tuoi piedini accendine il fuoco del tuo amore. Amen.
Anteprima degli articoli del bollettino nr 2 del 2021
Lettera apostolica PATRIS CORDE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEL 150° ANNIVERSARIO DELLA DICHIARAZIONE DI SAN GIUSEPPE QUALE PATRONO DELLA CHIESA UNIVERSALE
Quello che abbiamo davanti, a causa dell’emergenza pandemica e della conseguente crisi economica e occupazionale, si annuncia un anno particolarmente difficile e nelle intenzioni del Papa e del decreto della Penitenzieria Apostolica c’è l’affidamento allo sposo di Maria per trovare “conforto e sollievo dalle gravi tribolazioni umane e sociali che oggi attanagliano il mondo contemporaneo”.
A 150 anni dal decreto Quemadmodum Deus con cui il beato Pio IX rese pubblica la solenne proclamazione di san Giuseppe a Patrono della Chiesa Cattolica, papa Francesco ha indetto uno speciale anno dedicato al padre putativo di Gesù che terminerà l’8 dicembre 2021. Durante quest’anno, indetto mediante la lettera apostolica Patris Corde, la Penitenzieria Apostolica elargirà il dono di speciali indulgenze come stabilito in un decreto ad hoc firmato dal penitenziere maggiore, il cardinale Mauro Piacenza.
Con cuore di padre,
[…] Dopo Maria, Madre di Dio, nessun Santo occupa tanto spazio nel Magistero pontificio quanto Giuseppe, suo sposo. I miei Predecessori hanno approfondito il messaggio racchiuso nei pochi dati tramandati dai Vangeli per evidenziare maggiormente il suo ruolo centrale nella storia della salvezza: il Beato Pio IX lo ha dichiarato «Patrono della Chiesa Cattolica», il Venerabile Pio XII lo ha presentato quale “Patrono dei lavoratori e San Giovanni Paolo II come «Custode del Redentore». Il popolo lo invoca come «patrono della buona morte». […] Pertanto, al compiersi di 150 anni dalla sua dichiarazione quale Patrono della Chiesa Cattolica fatta dal Beato Pio IX, l’8 dicembre 1870, vorrei – come dice Gesù – che “la bocca esprimesse ciò che nel cuore sovrabbonda” (cfr Mt 12,34), per condividere con voi alcune riflessioni personali su questa straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. […] Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti». Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine […]
L’indulgenza plenaria sarà concessa ai fedeli che durante l’anno “mediteranno per almeno 30 minuti la preghiera del Padre Nostro, oppure prenderanno parte a un Ritiro Spirituale di almeno una giornata che preveda una meditazione su San Giuseppe”, “compiranno un’opera di misericordia corporale o spirituale”, reciteranno il “Santo Rosario nelle famiglie e tra fidanzati”, invocheranno con preghiere “l’intercessione dell’Artigiano di Nazareth, affinché chi è in cerca di lavoro possa trovare un’occupazione e il lavoro di tutti sia più dignitoso”, reciteranno le Litanie a san Giuseppe o l’Akathistos o qualche altra preghiera “a favore della Chiesa perseguitata ad intra e ad extra e per il sollievo di tutti i cristiani che patiscono ogni forma di persecuzione”.
Padre nell’accoglienza
[…] Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio»[…]
[…] Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso, egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni[…]
[…] La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande, un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).
Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.
La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.
[…] Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio, senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20)[…]
Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato male (etiam illud quod malum dicitur)». In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni evento lieto o triste.
Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità.
L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono, riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero.[20] Voglio immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).
Storia della liturgia della parola Teologia liturgica P. Abate Riccardo Luca Guariglia Abate di Montevergine
Il canto d’ingresso è attribuito dal Liber Pontificalis al Papa Celestino I (422-431). L’introduzione di questo canto è frutto di una preoccupazione pastorale: concentrare i fedeli sulla celebrazione che sta per svolgersi, mentre il celebrante si dirige verso l’altare. L’Ordo Romanum I per esempio ci dà una dettagliata descrizione di come si è sviluppato il canto d’ingresso. Il papa è in Laterano, dove nel giorno di Pasqua si svolge la celebrazione, a Santa Maria Maggiore, entra in sacrestia e indossa i paramenti, la schola nel frattempo ha già preso posto davanti al presbiterio, il diacono con il manipolo del papa fa segno che si può iniziare il canto d’ingresso, mentre il corteo si mette in cammino[1]. Oggi dopo il Concilio Vaticano II, il canto d’ingresso diventa il canto d’apertura che svolge una funzione di preparazione alla celebrazione, alla Liturgia della parola e al suo tema.
La Didachè nota l’uso della penitenza pubblica prima della celebrazione. S. Agostino osserva che dopo l’ingresso si salutano i fedeli, questo saluto faceva iniziare le letture, senza interruzioni per il Gloria e la colletta. Prima del saluto dei fedeli, l’Ordo I prevede che il celebrante si raccolga, iclinat caput ad altare, e non è prevista nessuna preghiera.
L’atto penitenziale, introdotto dall’attuale messale, riguarda tutta l’assemblea, ministri e fedeli. È interessante notare che il posto di quest’atto, prima delle letture, sia dovuto a una profonda comprensione di ciò che significa la proclamazione della parola: perché provoca uno dei modi di presenza del Signore nell’assemblea. L’attuale messale presenta differenti formule di realizzare l’atto penitenziale, che può essere sostituito, la domenica, da un’aspersione, quando la Messa è preceduta da una cerimonia, per esempio la domenica delle palme.
Il bacio all’altare e il saluto ai fedeli nel messale presente hanno cambiato posto. Nel messale di Pio V le preghiere ai piedi dell’altare erano seguite dal bacio dell’altare, dalla lettura a bassa voce del canto di ingresso, dal Kyrie e dal Gloria, solo dopo di essi il celebrante salutava l’assemblea. Poiché l’atto penitenziale era di tutta l’assemblea, è normale salutarla fin dall’inizio della celebrazione, così pure è normale come primo gesto baciare l’altare all’inizio della celebrazione. Per trattare il problema del Kyrie, bisogna collegarlo con la preghiera dei fedeli. Sappiamo da Eteria che a Gerusalemme, verso il 400, un diacono proponeva delle intenzioni, alle quali un gruppo di fanciulli rispondeva Kyrie eleison.
Il Gloria è una delle più antiche composizioni della Chiesa. Secondo il Liber Pontificalis papa Telesforo (+154) avrebbe introdotto questo canto nella messa di Natale, ma possiamo accertare che questa notizia sia falsa perché tale festa fu creata solo nel IV secolo a Roma. Abbiamo anche il sermone n. 6 di S. Leone come unica indicazione per Natale. Solo il vescovo intona il Gloria, a Natale. È noto che l’attuale messale romano ne ha ridotto l’uso, abolendolo nelle celebrazioni semplici e nelle festi minori.
La Colletta. E’ difficile precisare il momento dell’ingresso di questa preghiera all’inizio della liturgia della parola. In generale si pensa che sia stata introdotta da S. Leone Magno (440-461). Fin da allora la prima preghiera dell’assemblea, a parte il Gloria a Natale e poi il canto d’ingresso, era situata nel momento della preghiera dei fedeli o universale, chiamata soprattutto Oratio fidelium. Era perciò l’ascolto della parola di Dio che provocava la preghiera, espressa come risposta sotto forma di dialogo con il Signore. La colletta diveniva così una preparazione dell’ascolto e alla realizzazione di ciò che veniva inteso. Il termine colletta non indica una preghiera ma una riunione, la riproduce con la parola Oratio. L’ipotesi più verosimile è quella che si tratti di una preghiera personale dei fedeli, che invitati dall’ammonizione Oremus si raccolgono, e la loro orazione viene poi conclusa dalla colletta che riunisce in qualche modo la preghiera personale di ciascuno. La colletta si conclude con il Per Dominum nostrum Jesum…,così la Chiesa Romana prega abitualmente il Padre per il Figlio nello Spirito.
Oggi si pone il problema del contenuto della colletta di fronte alle letture. Molti, per motivi pastorali, desiderano nella Liturgia della parola un’unità tematica, collegata al contenuto delle letture. Così ciascun lezionario, per le domeniche e le feste, dovrebbe avere proprie collette, poste in rapporto alle letture.
- Giustino nella I apologia al capitolo 67 ci descrive la Liturgia della parola nel 150 d.C. e ci dà già una linea strutturata compreso l’omelia, senza darci però dati sul numero delle letture. Cita i profeti e le memorie degli apostoli, termine con cui indica sia le loro lettere sia i vangeli. Anche nel cap. 65 della I Apologia, Giustino descrive il battesimo e poi passa subito al rito del portare sull’altare il pane e il vino mescolato all’acqua. Questo significa che le letture probabilmente fossero fatte all’inizio della celebrazione[2]. Il concilio vaticano II conosceva l’uso del lezionario del messale di Pio V, ma il desiderio della Sacrosactum Concilium era di rendere ai fedeli una gran parte della Scrittura[3].
Infatti, fu deciso un ciclo domenicale di tre anni (ABC), mentre per i giorni della settimana furono organizzati un ciclo di due anni per la prima lettura e un ciclo unico per il vangelo, perché i giorni feriali comportano solo due letture. L’Omelia invece fa parte integrante della celebrazione, essa deve servire da legame tra la parola proclamata e la celebrazione dell’eucarestia che segue e deve condurre ad essa[4]. Il canto del Credo è entrato tardi nella Messa della Chiesa di Roma. La sua introduzione definitiva risale al XII secolo, e in ogni caso fu limitato ad alcune feste e domeniche. Il testo viene dal Concilio di Nicea (325), ma secondo la proposizione dei Concili di Costantinopoli e Calcedonia, introdotto nella Liturgia da Timoteo di Costantinopoli verso gli anni 515.
La preghiera dei fedeli alcuni autori la legano, Oratio fidelium, non alla Liturgia della parola, ma alla Liturgia eucaristica. Giustino nella sua Apologia, e Ippolito nella Tradizione Apostolica la collegano all’eucarestia. Questo nome di Oratio fidelium, valido per l’Oriente, potrebbe essere valido dove esistono ancora congedi per categorie, ed anche per la Liturgia latina, come nel caso in cui vengono preparati dei catecumeni[5]. Dunque la comunità cristiana riunita in assemblea liturgica, unita con tutta la Chiesa, intercede, si interpone tra Dio e l’umanità. È guidata dal presbitero, le intenzioni sono proposte dal diacono e la risposta del popolo è un’invocazione a Cristo Signore o al Padre, è la preghiera effettiva dei fedeli.
[1] S. Marsili, La liturgia, eucarestia: teologia e storia della celebrazione, 199-200.
[2] S. Marsili, La liturgia, eucarestia: teologia e storia della celebrazione, 208-210.
[3] Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 51, p. 31.
[4] «Per esprimere questa realtà non sono indifferenti il luogo della proclamazione delle letture e i riti che lo accompagnano. Conosciamo dei celebri amboni, da dove venivano proclamate le Scritture. Durante la proclamazione l’ambone deve rimanere in secondo piano, come un semplice strumento: il primo posto deve essere tenuto dal libro della parola e dal lettore. Una volta proclamata la parola, l’ambone resta poi come il segno della parola. L’evangelario deve essere distinto dagli altri libri che non è ritualismo, ma una scelta coerente e motivata. È necessario che il libro sia rilegato con dignità, così come il culto giudaico onora la Torah, conservata in un tabernacolo, sarebbe eccellente che i libri liturgici siano anch’essi conservati in un armadio particolare, auspicabile se è possibile corrispondente a quello della Riserva eucaristica. Il fatto che l’evangelario sia portato, circondato da ceri e preceduto dall’incenso non significa sfarzo; lo stesso per la proclamazione del vangelo da parte del diacono, chiede la benedizione e bacia l’evangelario, gesto solennizzato da non sottovalutare poiché aperto al clero e ai fedeli», S. Marsili, La liturgia, eucarestia: teologia e storia della celebrazione, 213-214.
[5] S. Marsili, La liturgia, eucarestia: teologia e storia della celebrazione, 218-220.
Il PADRE NOSTRO ESPRESSIONE VITALE DELLA FEDE CRISTIANA (I) SE Rev.mo Francesco pio Tamburrino Arcivescovo emerito Foggia-Bovino
La preghiera è uno degli elementi costantemente presenti nell’attività di Gesù. I Vangeli lo ritraggono in preghiera nei momenti più importanti della sua vita. Egli prega prima di compiere scelte significative, come la scelta dei Dodici (cf. Lc 6, 12-13). Nel suo insegnamento sulla preghiera Gesù conferma la dottrina dell’Antico Testamento sull’inutilità di moltiplicare parole pregando, sulla necessità di condurre una vita conforme all’insegnamento sulla giustizia e sull’amore del prossimo pregando incessantemente (Lc 18, 1-8). Le numerose preghiere di Gesù nei Vangeli ricoprono l’ampio spettro di forme eucologiche conosciute: il ringraziamento, la lode, la supplica, ma anche il grido di angoscia nei momenti supremi della prova. Una importanza particolare riveste la preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli, il Padre nostro, che accompagnerà tutte le generazioni di cristiani e sarà all’origine di numerosi commenti lungo i secoli della vita della Chiesa. Su questa meravigliosa catena di ininterrotte riflessioni vogliamo attirare l’attenzione di chi vuole conoscere i messaggi che ogni generazione cristiana ha saputo trarre dal dono che Gesù ha fatto ai credenti nel suo nome.
- Le fonti neotestamentarie.
Il Pater è la preghiera insegnata da Cristo ai suoi discepoli; per questo è detta “Preghiera de Signore”, oppure “Orazione domenicale”. I Vangeli ne danno due versioni diverse in contesti diversi: in Matteo (6, 9-13) essa è riportata nella sezione sulla preghiera del discorso della montagna, ed è suddivisa in sette domande. In Luca (11, 2-4), dopo una preghiera del mattino di Gesù, i discepoli gli pongono la richiesta di insegnar loro a pregare. Luca, rispetto a Matteo, riporta un testo che contiene diverse varianti importanti; essa si riduce a cinque domande (sono omesse: “sia fatta la tua volontà” e “liberaci dal male”). Storicamente, la Preghiera è sistemata meglio in Luca, inquadrata in un preciso episodio; Matteo le attribuisce una posizione “teologica” nel discorso della montagna, al centro di tutto l’insegnamento di Cristo.
La recensione di Matteo si presenta in forma ritmica, ben divisa in stichi e strofe.
Oggi, gli esegeti non ritengono che Luca abbia accorciato volontariamente il testo di Matteo, né che Matteo abbia ampliato un testo più breve. Agli inizi nella Chiesa circolavano le due forme leggermente diverse, anche se nessuna delle due era nata come “formula” di preghiera: esse erano piuttosto un elenco di “intenzioni” che avrebbero dovuto guidare la preghiera dei discepoli di Gesù. In seguito, l’uso della preghiera individuale e comunitaria ha finito col preferire il testo di Matteo, introducendolo nella preghiera della comunità cristiana.
- Verso la preghiera comunitaria
Nella seconda metà del I secolo, compare una compilazione anonima di fonti diverse derivate dalla tradizione viva di varie comunità ecclesiali, la Didaché, dovuta ad un autore giudeo-cristiano sconosciuto, che si indirizzava a comunità nelle quali erano presenti cristiani venuti dal paganesimo[1]. L’autore della Didaché ha riunito in un manuale alcuni testi desunti dalla tradizione, che gli sembravano utili per l’edificazione dei convertiti alle comunità cristiane. Tra le altre testimonianze, egli ha raccolto un blocco di tradizioni liturgiche sul battesimo, sul digiuno, la preghiera e la cena eucaristica.
Nella Didaché, 8, 2 troviamo l’invito: “Non pregate come gli ipocriti, ma come comandò il Signore nel Vangelo, così pregate: Padre nostro…, con l’aggiunta della dossologia: “A te spettano il regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli”. Questa dossologia, che compare anche in alcuni manoscritti antichi di Matteo, denota l’uso liturgico del Pater. E si aggiunge: “Pregate così tre volte al giorno”. Questa è una delle testimonianze più antiche di una prima normativa rivolta ai fedeli a proposito della preghiera.
- I commenti patristici e la liturgia
All’epoca patristica, il Pater è commentato nei trattati sulla preghiera (Tertulliano, Origene, Cipriano), negli scritti esegetici e spirituali (Cromazio, Girolamo, Agostino), nelle omelie (Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Pietro Crisologo), specialmente quelle destinate ai candidati al battesimo (Cirillo di Gerusalemme, Teodoro di Mopsuestia, Agostino).
Lo stesso rito del battesimo si arricchisce con l’introduzione del Pater. In Africa, alla fine della Quaresima, nella quinta domenica, dopo la consegna del simbolo delle fede (Credo), aveva luogo la traditio orationis dominicae, la consegna della preghiera del Signore ai catecumeni. S. Agostino valorizzava quel rito esortando: “Oggi ricevete in che modo di invoca Dio. Accogliete questa preghiera, che restituirete fra otto giorni”[2]. Nella domenica di Passione aveva luogo la redditio, la restituzione del Pater da parte dei catecumeni, recitato a memoria. Dalla notte battesimale, anche i catecumeni potevano pregare, con tutto il popolo di Dio, la preghiera dei figli di adozione.
In un passo ulteriore, la preghiera del Signore viene introdotta anche nella celebrazione eucaristica come anello di congiunzione tra la Prece eucaristica e il rito della comunione. Verso la prima metà del V secolo, solo la Chiesa di Gerusalemme aveva introdotto il Pater nella Messa, uso che poi si estese a tutte le Chiese[3].
- Il Pater una “via” per la riconciliazione
Nella Chiesa antica esistevano solo due forme di penitenza per la remissione dei peccati: il sacramento del Battesimo e una seconda ed ultima forma nella Poenitentia secunda, un percorso penitenziale vissuto nella comunità ecclesiale, sotto la guida del Vescovo, dl quale si ricevevano le direttive per un cammino ascetico e di conversione. Non mancavano le “vie di riconciliazione”, itinerari ascetici che consentivano a tutti di pervenire al perdono dei peccati[4]. Tra le varie “vie di riconciliazione” spesso i Padri inseriscono il perdono reciproco delle offese. Origene, ad esempio, elenca come una delle vie via per la remissione dei peccati il perdono concesso ai fratelli: “Tutti abbiamo sicuramente il potere di rimettere i peccati commessi contro di noi; cosa che è dimostrata dalle parole ‘Come noi rimettiamo ai nostri debitori’ (Mt 6, 12), e da queste altre: ‘Poiché anche noi rimettiamo a tutti coloro che sono in debito con noi’ (Lc 11,4)[5].
[1] W. RORDORF, Didaché, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, I, Marietti, Genova-Milano 2006, 1400-1402.
[2] S. AGOSTINO, Sermo 58, 13.
[3] Cf. M. RIGHETTI, Storia liturgica. III. La Messa, ed. Ancora, Milano 1998, 476-480.
[4] Cf. F. P. TAMBURRINO, Le vie della riconciliazione nei Padri e nel magistero della Chiesa, in Celebrare la misericordia. “Lasciatevi riconciliare con Dio”, Atti della 60.ma Settimana liturgica nazionale, Edizioni liturgiche, Rona 2010, 39-87.
[5] Origene,Sulla preghiera,27,8.
Tra Fede&Istituzioni VIVERE IN TEMPI ECCEZIONALI: RIFLESSIONI SULLA FEDE – del vicecapo Polizia di Stato Maria Teresa Sempreviva
Negli otto quaderni in ottavo, Franz Kafka lascia una testimonianza sorprendente sulla fede: “Chi crede non si imbatterà mai in un miracolo: di giorno non si vedono stelle”.
Questa affermazione perentoria sembra offrire – a una prima lettura – un’immagine da idillio della fede e soprattutto del credente, perennemente accompagnato da una luce forte, quella del giorno – per l’appunto – di un giorno costante, che rassicura e protegge.
A una lettura più attenta, tuttavia, lo scenario cambia. Lo sguardo della fede suggerito dallo scrittore è quello che non vede miracoli, non vede segni, non trova appigli e punti di riferimento in un cammino non definito, non privo di incertezze e ricorrenti crocevia. Che questa strada sia da percorrere alla luce di quel giorno “perenne” indicato dallo scrittore non toglie nulla alla fatica e all’insicurezza di chi deve procedere senza conoscere né il percorso né la meta.
Questa prospettiva contraddice il pensiero ricorrente secondo cui chi crede trova maggior sollievo nella vita di ogni giorno, sia nei momenti di difficoltà, che in quelli di serenità nei quali, il sentimento di riconoscenza per un dono ricevuto, conferma il credente nella relazione con l’Alto, un tu per Tu che si nutre di sostegno e di continui segni di vicinanza.
Viene spontaneo chiedersi, allora, quale sia il ruolo della fede in un momento storico animato da paure che sembravano superate, “antiche”, tenute a distanza dai resoconti sulle epidemie che hanno segnato la storia delle civiltà almeno fino agli albori del XX secolo. Più in generale, ci si interroga sul rapporto tra fede e crisi.
Il significato delle parole può aiutarci in questa riflessione. Al contrario del senso negativo che attribuiamo correntemente al termine, la parola “crisi”, nel suo senso originario, significa scelta, decisione, discernimento. “Crisi” è l’esito di un giudizio, di una valutazione, di una distinzione. “Crisi” è interrogarsi costantemente e scegliere, scegliere cosa fare o non fare, scegliere da che parte stare. Se Kafka ha ragione, per chi crede, “crisi” è tutto questo ma in quella luce del giorno che non vede miracoli, stelle, segni.
L’uomo è un essere sociale, il cui agire quotidiano è manifestazione di questa natura, che oggi rischia di essere contraddetta dai comportamenti che ne costituiscono la più genuina espressione, ovvero quello stare insieme che può diventare causa di contagio e di propagazione del virus. Da ciò il rischio di percepire l’altro non come il prossimo con cui condividere esperienze e di cui prendersi cura, ma come una minaccia da cui guardarsi, con la conseguenza – finché la pandemia non sarà definitivamente superata – di essere chiamati a scegliere se assecondare la propria natura, con il rischio di contagiare o di essere contagiato, o se negarsi alla socialità con la speranza di immunità.
Ma chi crede, specie nei momenti di crisi, sa di essere impercettibilmente unito ad altri come lui, ad altri che in quella perenne luce del giorno cercano i medesimi segni per indovinare un cammino, per intravedere una meta. L’attrazione verso il Cielo si riflette verso il basso, verso il simile, verso il prossimo.
Allora vivere la fede nella crisi significa cercarsi, farsi carico di qualcosa, prendersi cura di qualcuno, anzi – mantenendo fermo il senso originario del termine crisi – significa determinarsi ogni momento, ogni giorno, in ogni circostanza, di fare quelle scelte.
Da funzionario dello Stato, da Prefetto, da Vice Capo della Polizia vivo quotidianamente la necessità della scelta, della scelta del servizio a favore del bene pubblico e quindi del cittadino, il “prossimo” della pubblica funzione. Specie in un momento contrassegnato da difficoltà inedite per il nostro tempo, sento come la responsabilità di ruoli istituzionali debba essere maggiormente avvertita, esercitata con più intensa prossimità, accompagnata da quel senso di accudimento che appare più proprio della dimensione della fede. E’ quel farsi carico, quel prendersi cura che chi crede è chiamato a compiere, a scegliere di compiere, ogni giorno.
E’ forse questa scelta, questa “crisi” quotidiana la motivazione primaria delle azioni messe in campo, delle decisioni che ogni giorno siamo chiamati ad assumere per il contenimento della pandemia in atto, ma anche per la tenuta della coesione sociale a presidio della legalità in uno scenario emergenziale senza precedenti. Noi servitori dello Stato siamo chiamati a esserci.
Spesso non è dato sapere quali intime convinzioni siano alla base dei comportamenti di ciascuno, quale fede accompagni l’esercizio delle proprie funzioni.
Sono, tuttavia, convinta che nei momenti di particolare difficoltà chi è chiamato a operare a favore della collettività, avvertendo con maggiore intensità la responsabilità delle proprie scelte e delle proprie azioni, conseguentemente senta la necessità, anche inconsapevolmente, di attingere a un nucleo intimo di principî, di fede per chi è credente, secondo cui declinare il senso del servizio a vantaggio del bene comune.
Pertanto, quel vagare senza punti di riferimento, in un tempo sospeso, senza le stelle evocate da Kafka, può diventare non un cammino solitario e pieno di insidie, ma un percorso condiviso di molti, pienamente consapevoli delle responsabilità di cui farsi carico nei confronti degli altri.
E’ confortante la speranza che questo percorso possa essere compiuto sotto lo sguardo della Madonna di Montevergine, sguardo vigile e tranquillo di mamma, avvolto – come può ammirarsi nella magnifica icona – da una luce intensa, quella del giorno in cui non serve vedere le stelle per orientarsi.
Anteprima degli articoli del bollettino 2021