Non lontano dal Santuario di Montevergine, in territorio del comune di Mercogliano, si trova il Palazzo abbaziale di Loreto. Situato su di un’altura, esso è ancora adesso abitato dalla famiglia dei monaci verginiani di Montevergine e rappresenta un mirabile esempio dell’architettura della metà del secolo XVIII, pure in forma atipica per l’apporto che alla sua costruzione diedero due diversi architetti napoletani del periodo. Bisogna preliminarmente avvertire che il Palazzo abbaziale di Loreto non è visitabile, se non limitatamente al piano terra e alla Farmacia, appunto perché al suo interno vige ancora un regime di clausura -seppure non in maniera così rigida come fu in origine; peraltro, l’unica volta in cui il chiostro viene ufficialmente aperto al pubblico è in occasione della rassegna musicale sinfonica “Musica in Irpinia”, che, sotto la direzione artistica del maestro avellinese Mario Cesa, rinnova ogni anno nel mese di luglio una tradizione ormai trentennale: a ridosso della fontana ottocentesca, al centro del giardino, viene montato il palco, e negli spazi tra le aiuole vengono sistemate le sedie. Come si può immaginare, si tratta di uno scenario molto suggestivo che non manca di suscitare un forte richiamo in un pubblico sempre più numeroso, anche grazie all’ormai ampiamente accreditato livello tecnico della rassegna. Notevole è la mole di studi e di pubblicazioni che hanno per oggetto il Palazzo abbaziale di Loreto, tuttavia le notizie più approfondite ed articolate composte in un corpus organico di ricerche si devono soprattutto a due illustri monaci della Congregazione verginiana: il compianto padre Giovanni Mongelli e l’attuale direttore della Biblioteca statale di Montevergine (cui si è dedicata una scheda più oltre), padre Placido Tropeano, alla cui infaticabile attività di custodi e testimoni delle vestigia e dei fasti della Congregazione di Montevergine rimandiamo per ogni ulteriore approfondimento di questa che inevitabilmente sarà una scheda non esaustiva sull’argomento. La vita della nuova famiglia di monaci cui San Guglielmo da Vercelli aveva dato avvio sin dalla prima metà del secolo XII sulla sommità del monte Partenio si rivelò ben presto molto dura per i giovani che, unendosi al fondatore di Montevergine, avevano deciso di dedicare la loro vita alla Madonna; data l’altitudine il clima era molto rigido e questo causava frequenti malattie nei religiosi. Inoltre, San Guglielmo aveva deciso di seguire per sé e per i suoi confratelli una rigida dieta alimentare che non prevedeva nella maniera più assoluta la carne, le uova, i latticini: clima e dieta quaresimale costituirono dunque sin dall’inizio due problemi così impegnativi che indussero i monaci ad individuare una zona più a valle, in cui il clima fosse stato più mite, per costruirvi una infermeria per la cura degli ammalati ed anche per trascorrere i mesi più freddi dell’inverno. Tra i numerosi episodi curiosi ed intriganti che costellano la storia di Montevergine, particolarmente interessante è quell’aneddotica che riguarda proprio questo regime di dieta alimentare; il divieto è rimasto in vigore fino alla metà del secolo scorso, e soltanto dopo il 1960 la Congregazione decise di inoltrare alla Santa Sede una formale richiesta intesa ad ottenere una dispensa, tant’è che nella memoria degli irpini specialmente – ma non solo – resiste tuttora un vivo ricordo di questa proibizione che impediva anche a loro –quando si recavano in pellegrinaggio al santuario- di portare con sé i famosi cibi proibiti. D’altra parte, gli storici verginiani riportano una serie infinita di episodi legati alla dieta alimentare che dovevano evidentemente avere lo scopo di perpetuarne l’osservanza (uno per tutti, è quello del cavaliere che saliva a Montevergine dal versante di Avella, attraverso Campomaggiore, portando con sé nella sua bisaccia ogni sorta di cibo proibito; durante la sosta al santuario egli riusciva a mangiare impunemente –per lo meno in apparenza- quanto aveva portato con sé, ma non sapeva, il meschino, che nel ridiscendere a valle un improvviso temporale con lampi e tuoni spaventava il cavallo che disarcionava il suo cavaliere, il quale trovava fatalmente la morte: nell’episodio si legge chiaramente l’esortazione, rivolta a tutti, religiosi e laici, ad osservare il regime di dieta prescritto da San Guglielmo). Dai documenti che si conservano presso l’Archivio annesso alla Biblioteca statale di Montevergine, risulta un primo accenno alla presenza di una casa verginiana in un luogo detto Orrita nel febbraio del 1195. Il già citato padre Mongelli ritiene –per la verità con un ragionamento cui può essere mosso qualche appunto- che l’etimologia del nome Loreto discenda in realtà da un orto, detto Orrita, situato nella contrada Vesta, confutando così la datata tradizione secondo cui l’esistenza di un bosco di alloro, attraverso le parole latine laurum e lauretum, avesse condotto all’attuale denominazione Loreto; Orrita era anche il nome di un contadino, tale Maraldo Orrita, proprietario di una vigna in quella stessa zona. Dal 1195, dunque, esisteva un palazzo che doveva trovarsi a circa trecento metri in linea d’aria dall’attuale Palazzo di Loreto, sul lato sinistro della strada che sale a Mercogliano, poco prima del Monastero delle Suore benedettine; nel marzo di quello stesso anno l’imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II di Svevia, con un documento che si conserva anch’esso presso l’Archivio di Montevergine insieme con i ventisei diplomi del figlio, donò al monastero di Montevergine la terra di Mercogliano con i suoi tenimenti, gli uomini, le pertinenze: questo provvedimento fece della casa di Orrita, oltre che l’infermeria di Montevergine, la sede della curia abbaziale per l’amministrazione civile del feudo dell’abbazia. Inoltre, nella metà del secolo successivo, con i papi Alessandro IV (1254-1261) e Urbano IV (1261-1264) l’abbazia divenne nullius: le veniva cioè riconosciuta una sorta di principio di autonomia ed extra-territorialità che nel corso degli anni avrebbe fatto della casa di Orrita prima e di quella di Loreto poi un centro nodale delle innumerevoli attività in cui il magistero ecumenico -e non solo- della Congregazione verginiana di Montevergine si sarebbe articolato. Presso l’Archivio di Montevergine si conserva una “platea” (un tipico documento del Settecento, un elenco ragionato di possedimenti e di beni, cioè una sorta di mappa catastale ante litterram), redatta nel 1721 dall’agrimensore beneventano Bartolomeo Cocchi, il quale aveva avuto incarico dai monaci di Montevergine di censire i loro beni; da questo documento si ha un’idea abbastanza attendibile di come era il vecchio palazzo: soltanto più piccolo dell’attuale, ma anch’esso con un vasto giardino interno, con fiori e piante da frutto. Prima di Cocchi, era stato un famoso abate di Montevergine, Giovanni Giacomo Giordano, nella sua opera del 1649, le Croniche di Monte Vergine, a fornire una dettagliata descrizione della vecchia infermeria. Giordano riferisce quanto poteva osservare di persona, magari dall’alto della montagna, dunque la sua descrizione non ha i tratti rigorosi della relazione tecnica che sarà poi di Cocchi. Tuttavia, è difficile resistere alla suggestione che evocano le parole dell’abate, il quale fece pure eseguire, a corredo di quello che si può definire un suo diario, una pregevole incisione (di cui si conserva presso la Biblioteca di Montevergine un’edizione del 1701, esposta in una delle due mostre permanenti) in cui è rappresentato il Santuario di Montevergine e in basso il vecchio Palazzo di Loreto; inoltre, alcuni dei paesi che sorgevano sul fianco della montagna e, nell’angolo in alto a destra, il golfo di Napoli con l’isola di Capri: com’è facile immagine, questo è un particolare che non manca mai di suscitare ammirazione e stupore in quanti, visitando o consultando la Biblioteca, indugiano anche dinanzi a questa pregevole incisione. Ancora adesso, smog permettendo, è davvero possibile, nei giorni di cielo limpido, scorgere anche ad occhio nudo il contorno familiare e confortante del golfo di Napoli. La vecchia infermeria assolse onorevolmente ai suoi compiti fino alla data fatale del 29 novembre 1732, quando un violento sisma completò l’opera iniziata da altri due terremoti degli anni precedenti. Ai monaci di Montevergine si pose dunque il problema se riattare il palazzo parzialmente distrutto e comunque inagibile, oppure se costruirne uno nuovo in una zona diversa. Nel capitolo generale che si tenne il 26 aprile 1733 i monaci stabilirono più conveniente scegliere una zona diversa, che fosse in qualche modo al riparo dai frequenti terremoti che avevano afflitto il sito su cui sorgeva la vecchia infermeria ed allo scopo individuarono la contrada “Croce di Vesta”, confortati nella loro scelta anche dal parere dell’architetto al quale avevano deciso di affidare la costruzione della loro nuova casa: Domenico Antonio Vaccaro, conosciuto come uno dei più stimati architetti napoletani. Presso l’Archivio di Montevergine è conservato un cospicuo fondo relativo alla costruzione del Palazzo abbaziale di Loreto, in cui sono annotate anche le circostanze e gli avvenimenti più minuti: è dall’esame attento e rigoroso dei documenti contenuti in questo fondo che padre Mongelli ha ricostruito la storia del palazzo fin nei suoi mini dettagli, iniziando dal dirimere in via definitiva la questione relativa ad una non corretta attribuzione del progetto di costruzione a Luigi Vanvitelli, oppure a presunte collaborazioni tra quest’ultimo e Vaccaro: come si vedrà in seguito, altri saranno gli artisti che entreranno a far parte della schiera di onesti mestieranti, più e meno famosi, che si avvicendarono nella costruzione del nuovo Loreto, fino a farne quel gioiello dell’architettura della metà del Settecento che è ancora adesso. Dalle relazioni di archivio sappiamo che Vaccaro approntò un modellino in legno di come si figurava il palazzo, e probabilmente il suo progetto doveva essere più avveniristico rispetto all’intervento di normalizzazione -improntato ad uno stile più sobrio- attuato alla sua morte dal successore Michelangelo Di Blasio. Le fondamenta del palazzo furono gettate il 5 aprile del 1734. Il progetto del Vaccaro prevedeva al centro del giardino -dove nel 1848 l’abate Raffaele De Cesare avrebbe fatto edificare una vasca di marmo, recentemente restaurata e ripulita- una torre che doveva essere collegata con per lo meno tre ponti sospesi al primo piano del palazzo e che doveva servire da residenza dell’abate. Questa torre, che Vaccaro aveva iniziato ad edificare, si trovò ben presto al centro di una serie di questioni, e non fu che il primo di una serie veramente infinita di ostacoli che sorsero e che fecero protrarre i lavori fino alla metà del secolo XVIII. In una visita alla costruendo fabbrica del Loreto un non meglio specificato illustre personaggio della corte napoletana ebbe a muovere delle critiche alla torre che avrebbe avuto la colpa, secondo lui, di togliere luce ad un’ala del palazzo; queste critiche furono riportate all’abate Angelo Maria Federici, il quale pur nutrendo grande fiducia nell’operato di Vaccaro, non poté fare e meno di riferirgliele, a furia di sentirsele ripetere egli stesso. La risposta del Vaccaro non si fece attendere e fu per la verità abbastanza risentita, ma al tempo stesso riuscì nell’intento di placare qualche dubbio che pure si era affacciato alla mente dell’abate.
Purtroppo, la determinazione di Vaccaro di procedere nella costruzione del Palazzo di Loreto secondo i piani prestabiliti dovette fare i conti con altri ostacoli che già si profilavano all’orizzonte. Dapprima sorse la questione con un tal Angelo De Leonardis di Ospedaletto, il quale utilizzava una fonte di acqua di proprietà dei monaci per alimentare un suo mulino; avendo reclamato i monaci l’utilizzo di tale acqua indispensabile per la fabbrica del Loreto, il tribunale di Napoli emise una sentenza a loro favorevole, dividendo la fonte tra la Congregazione ed Ospedaletto, estromettendo così completamente il De Leonardis, al quale fu concesso un indennizzo di settanta ducati. Risolta appena la questione dell’acqua ecco che i paesi di Mercogliano ed Ospedaletto, dapprima separatamente e quindi insieme in un ricorso congiunto, presentarono un’articolata istanza con lo scopo di bloccare i lavori di costruzione della fabbrica, in cui sostenevano tra l’altro che i monaci se avessero riattato il vecchio palazzo ne avrebbero fatto ristoranti ed ostelli per servire il turismo religioso, togliendo così loro opportunità di guadagno. Chiamato, in qualità di funzionario regio, a dirimere la questione, il cavalier Michelangelo Di Blasio fece per la prima volta la sua comparsa a Loreto tra il 1739 e il 1740; soltanto nell’agosto del 1746, risolta finalmente con una decisione favorevole ai monaci la vertenza con Mercogliano ed Ospedaletto, si poterono riprendere i lavori. Morto Vaccaro nel giugno del 1745, Michelangelo Di Blasio parve ai monaci il candidato ideale per completare la costruzione. L’intervento del Di Blasio non fu di poco conto; innanzitutto, aderendo alle critiche che un decennio prima erano state mosse alla torre centrale, egli decise di demolirla facendo così posto al vasto giardino; ideò inoltre le due imponenti rampe di scale che si incontrano appena varcato il portone d’ingresso, e che creano un suggestivo gioco di richiamo con l’antisala –che per metà rimane pensile- del salone settecentesco al piano superiore. A Di Blasio si deve, insieme con la demolizione della torre cui Vaccaro sembrava tanto tenere, il disegno della parte interna del palazzo dal lato opposto al portone centrale d’ingresso, ed è proprio in questo lato della costruzione che si evidenziano le differenze con il progetto originario del Vaccaro, del quale si può solo supporre quale avrebbe potuto essere lo sviluppo non essendosi ritrovati i disegni. Il padre Mongelli ritiene comunque che il Palazzo abbaziale di Loreto non possa rientrare in un catalogo organico di Vaccaro, né tanto meno essere attribuito interamente a Di Blasio, perché risente in ugual misura dell’apporto dell’uno e dell’altro; d’altra parte, proprio le due mani diverse, di artisti che si ispiravano a principi architettonici addirittura opposti (preferendo il Vaccaro la linea curva e il Di Blasio quella retta), hanno infine conferito al palazzo un carattere di grande originalità che ne fanno un esemplare unico nel panorama dell’architettura meridionaledella metà del Settecento. Particolare importanza ebbe l’orologio che fu posto su una torretta di fronte al portone di ingresso; laboriosa fu da parte dei monaci la scelta delle maioliche del quadrante tra le diverse proposte di Francesco Barletta, pubblico orologiaio di Napoli, con il quale si stipulò un contratto di manutenzione. L’orologio cominciò a funzionare il 1° ottobre del 1750, come recita ancora adesso la data apposta alla base, ma, dopo un primo restauro del 1892, fu completamente rimodernato nel 1955 con un meccanismo elettrico. I lavori di costruzione del Palazzo abbaziale di Loreto si conclusero intorno al 1750. Artisti più e meno noti contribuirono a definirne compiutamente l’inconfondibile stile che contribuisce ad accrescere la suggestione delle sue sale; sulla volta di ingresso il pittore Antonio Vecchione rappresentò lo stemma dell’Abbazia con le due lettere M(ontis) V(irginis) e la scritta nullius. Nel cartiglio alla base dell’affresco la firma A. D. 1750 Antonius Vecchione f(ecit). Pure di Vecchione sono le volte delle due salette che costituiscono l’Archivio diocesano, che rimane nella parte del palazzo di pertinenza esclusiva dei monaci; in una di queste si conservano ancora gli armadi in noce –che custodiscono i documenti della Congregazione- realizzati da fra’ Mariano Pagano da Castellammare di Stabia. Delle lapidi commemorative di cui, come si può immaginare, il palazzo è pieno, tre veramente importanti si riferiscono all’archivio, all’interno del quale si trova la prima dettata dall’abate Nicola Maria Letizia che rievoca l’istituzione dell’archivio, apposta il 1755-1756, e la seconda nella volta tra le due sale dell’abate Ramiro Marcone, che nel 1926 riuscì ad ottenere la restituzione dei documenti dell’archivio requisiti nel 1862 e trasportati presso l’Archivio di Stato di Napoli; infine, sulla porta d’ingesso che dà nel corridoio, la terza lapide risale al 1964, e ricorda i lavori di restauro fatti eseguire dall’abate Anselmo Tranfaglia. Nel sontuoso salone settecentesco fanno bella mostra un notevole rivestimento di damasco rosso che risale al 1957 e soprattutto tre arazzi cinquecenteschi di scuola fiamminga che facevano parte degli arredi iniziali che i monaci acquistarono probabilmente dalla famiglia Caracciolo di Avellino; sul soffitto del salone sono ancora visibili le decorazioni e gli stucchi eseguiti dai fratelli Conforto di Calvanico. Sull’altare di marmi policromi della cappella fu posta una tela dipinta da Paolo De Maio, pittore specializzato in soggetti religiosi, allievo del più famoso Francesco Solimena; questo quadro rappresenta l’assunzione in cielo della Santa Casa di Loreto. L’altare fu consacrato nel dicembre del 1765, anche se la data alla base dell’altare recita MDCCLXVII, ma con i due “II” evidentemente aggiunti successivamente, ché infatti fanno cadere fuori centro l’iscrizione: si tratta di un fatto che non trova spiegazione, neanche da parte di padre Mongelli, il che colloca la circostanza in un ambito misterioso che sarebbe proprio delle arti indagatorie di Guglielmo di Baskerville, il teologo de Il nome della rosa. Nel corso di consistenti lavori di restauro, nel 1925, lavorò nella cappella anche Vincenzo Volpe, noto esponente dell’Ottocento pittorico napoletano ma originario di Grottaminarda, che disegnò il soffitto e il pavimento in marmo, realizzati rispettivamente da Savino Pasquale e dalla ditta Piroli di Avellino; il coro in stile imitazione del Settecento, in legno e cuoio intagliato, morto prematuramente nel 1929 Vincenzo Volpe, fu eseguito dal figlio Geppino e dal fratello Mario. Di Vincenzo Volpe sono pure due ritratti di abati (Vittore Corvaia e Gregorio Grasso, eseguiti rispettivamente nel 1908 e nel 1924), collocati nell’antisala del salone settecentesco. Alcune tele all’interno del Palazzo rimangono senza un’attribuzione certa, come il caso del quadro che occupa una parete del refettorio, firmato in un angolo in basso con la sigla “JMP 1753”; il padre Mongelli ha avanzato l’ipotesi che la sigla possa essere sciolta in Joseph Montesano Pinxit, attribuendo dunque il quadro (che rappresenta Abramo che accoglie e ospita tre angeli in forma di uomini e in abito di pellegrini) a Giuseppe Montesano, ma quest’ipotesi va considerata con il beneficio del dubbio. Sempre nel refettorio si trovano altri tre arazzi, anche questi inizialmente collocati nel salone; recentemente un professore belga, incaricato dal Governo italiano di censire gli arazzi del Cinquecento che si trovano sul territorio italiano, esaminando quelli del Palazzo abbaziale di Loreto avrebbe individuato in essi la presenza di alcune figure mitologiche non così comuni negli arazzi di quel periodo provenienti dal Belgio ripromettendosi dunque di ritornare per un esame più dettagliato. Una breve annotazione merita, in chiusura di questa scheda sul Palazzo abbaziale di Loreto, la cosiddetta “ala degli studenti”, che non faceva parte del progetto originario e che infatti fu aggiunta in un secondo momento; la sua costruzione fu iniziata nella seconda metà del Settecento, durante il periodo di abbaziato di Nicola Maria Letizia, quando il monastero aveva già assunto definitivamente la sua forma particolare di un ottagono allungato verso sud, e dunque quest’aggiunta posticcia rompe decisamente con l’armonia complessiva del palazzo. Nel corso del secolo XIX, toccò all’abate Raffaele De Cesare curarne la ricostruzione e di soprintendere alla sua inaugurazione, nel 1847, con destinazione seminario diocesano. Nell’immediato dopo terremoto del 1980, un piano dell’ala degli studenti fu occupato dalle Suore benedettine, il cui palazzo era stato dichiarato inagibile. Attualmente, la costruzione versa in uno stato di totale abbandono, non funzionando più da tempo il seminario, e potrebbe magari essere utilmente destinata –almeno in parte- alla Biblioteca, dove il problema dello spazio per la custodia di libri e documenti è ormai sempre più impellente.
L’attuale Palazzo, costruito in luogo dell’antico quasi completamente distrutto da un forte terremoto nel 1732, fu iniziato dall’abate Federici nel 1733 e portato a termine nel 1749 sotto il governo dell’abate Letizia. Serviva come residenza abbaziale, oltre all’antico Castello di Mercogliano. L’originario disegno e progetto si devono a Domenico Antonio Vaccaro, pittore scultore e architetto di gran valore del sec. XVIII.
L’originale architettura conserva:
La Farmacia, con una collezione di vasi di maiolica
L’Archivio ricco di circa 7000 pergamene ed altrettante filze di carte
La Biblioteca con 200.000 volumi, aperta al pubblico che ha assunto, negli ultimi anni, il carattere di un aggiornato e funzionale istituto di cultura
Nel Palazzo Abbaziale di Loreto è inoltre presente la Premiata Fabbrica di Liquori dei Padri Benedettini di Montevergine, la Cantina ed un’apicultura per la produzione del miele.